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Bonhoeffer: da teologo, a cristiano, a compagno del nostro tempo

Memoria del tentativo - nel pieno di una catastrofe - di progettare la teologia come intepretazione non-religiosa dei concetti biblici in un mondo divenuto adulto (9 aprile 1945-2020)

Bonhoeffer

Da ovest arrivava il rombo dell’artiglieria americana

 “A  Flossemburg, nel grigio crepuscolo di quel lunedì, 9 aprile 1945, vennero assassinati coloro che non dovevano sopravvivere. Il medico del campo vide Bonhoeffer, nella cella preparatoria, inginocchiarsi e pregare ardentemente. Più tardi Filippo d’Assia ha trovato nella sua cella una Bibbia e un volume di Goethe e vi ha letto il nome di Dietrich Bonhoeffer”.

 Contiamo settantacinque anni dall’assassinio di Dietrich Bonhoeffer, ad opera della ferocia nazista, mentre si profilava già l’inizio della fine di quella tragica follia tedesca, europea, occidentale.

 “Il 3 aprile, martedì di Pasqua, a sera inoltrata, da ovest arrivava il rombo dell’artiglieria americana. Dal cancello del lager di Buchenwald uscì e scomparve nella notte una vettura a gas di legno, informe, tetra. Sul dietro, sedici prigionieri (“coloro che non dovevano sopravvivere”), si sforzavano di adattarsi a uno spazio previsto per otto persone al massimo…”.

Prendo queste citazioni dall’appendice Gli ultimi giorni del volume Resistenza e Resa – lettere e appunti dal carcere di Dietrich Bonhoeffer; una bella e antesignana (1969) edizione a cura di Bompiani, con la lunga e approfodita introduzione di Italo Mancini e una premessa del curatore Eberhard Bethge scritta nell’agosto 1951 e aggiornata a ottobre 1955. Il 9 aprile 1945 Dietrich aveva soltanto 39 anni, era stato arrestato il 5 aprile di due anni prima. Nonostante questa giovane età era già un noto teologo protestante, abilitato all’insegnamento nell’università di Berlino e un anno di perfezionamento all’Union Theological Seminar di New York; aveva già scritto sette saggi, di cui alcuni pubblicati postumi. Del suo primo lavoro, scritto a 21 anni, Dogmatische Untersuchung  zur  Soziologie der Kirche,  il teologo Karl Barth scrisse: “Ancora oggi essa è più istruttiva, più eccitante, più chiarificatrice, veramente più edificante da leggere di ogni sorta di opere più celebri che sono state scritte sul problema della Chiesa…saprò io, nella mia prospettiva e nel mio linguaggio, non dire meno cose e cose più fragili, di quelle dette allora da questo giovane di ventun anni?”.

Fin quì siamo, per lo più, dinanzi ad un giovane studioso di talento, la cui maturazione intellettuale è stata interrotta da morte ingiusta ed atroce. La mia generazione lo ha scoperto in una duplice configurazione: quella di un resistente al nazifascismo e quella di un testimone della interrogazione – alla fede e alla religione, cristiane –  su «Cristo dinanzi al e nel mondo diventato adulto» – «Christus und die mündig gevordene Welt». Una ricerca, questa, nella quale la mia generazione ha vissuto la sua stagione di credenti laici.

Dietrich scrisse diverse lettere dal carcere, tra queste Lettere ad un amico, dal 18 novembre 1943 al 23 luglio 1944. In questo stesso periodo scrisse Poesie, alcune le inviò all’amico, altre furono ritrovate dopo: tutte sono strettamente legate al Pensiero e alla Ricerca teologici, spirituali e temporali testimoniati dalle Lettere. L’amico è (era) Eberhard Bethge – già suo studente – che scrisse su di lui una monumentale biografia: Dietrich Bonhoeffer. Theologe, Christ, Zeitgenosse, Monaco, Kaiser, 1967, pp. 1128 [“teologo, cristiano, contemporaneo”]. In un saggio pubblicato nel 1971, Svolte nella vita e nell’opera di Dietrich Bonhoeffer, Bethge scrive: “Il mistero della vita e dell’opera di Bonhoeffer si lascia meglio cogliere da due svolte avvenute nel suo cammino. La prima può essere datata all’anno 1931-1932. Essa potrebbe essere definita la svolta di Bonhoeffer da teologo a cristiano. La seconda datata nel 1939. Il cristiano Dietrich divenne un compagno del nostro tempo, un uomo della sua epoca particolare e del suo ambiente specifico”( Dossier Bonhoeffer, Queriniana, 1971).

Attenzione, però, non stiamo raccontando una fiaba edificante: prima, nella prigionia e dopo la morte, Bonhoffer ha incrociato incomprensione, distanze, contrasti e conflitti di ogni tipo e da dicersi versanti. In questi tempi, peraltro, è oggetto di strumentalizzazioni sulle quali si stenta ad alzare l’attenzione.

Brevi notizie storiche

Dietrich Bonhoeffer trascorse il primo anno di prigionia nel carcere di Tegel (dentro Berlino) dal 5 aprile 1943 all’8 ottobre 1944. L’arresto avvenne per motivi politici, senza fatti specifici; dapprima l’accusa fu di tradimento, cambiata poi nella blanda “demoralizzazione della truppa”. All’inizio ebbe il permesso di scrivere soltanto ai genitori. Dopo sei mesi, si era fatto buoni amici all’interno e poté cominciare uno scambio di lettere esteso, stando soltanto attento a non trattare argomenti politici e, in qualche modo, collegati alle attività di opposizione al regime; questa situazione arrivò fino alla fatidica data del 20 luglio 1944, giorno del fallito attentato a Hitler e, poco dopo, al ritrovamento del dossier Zossen, in cui furono trovati elementi che portarono alla carcerazione di persone dell’opposizione tra cui un cognato di Dietrich Bonhoeffer,  Hans von Dohnany. Questa cisrcostanza  diede modo alla Gestapo di trasferire Bonhoeffer nella Prinz-Albert-Strasse, sempre dentro Berlino, dove c’era il quartier generale della Gestapo. E’ in questo carcere che Bonhoeffer, quando gli giunse la notizia del 20 luglio  ebbe la consapevolezza della sua fine. Da allora le Lettere all’amico diventano più rare (importante quella del 21, dove si percepisce un sentimento da bilancio di un percorso di vita; le ultime, sporadiche, arrivano fino al 21 agosto). Intanto i contatti con l’esterno divennero meno facili; e un giorno la famiglia scoprì che Dietrich era scomparso: non era più a Berlino. La Gestapo rifiutò qualsiasi chiarimento sul luogo dove Bonhoeffer fosse stato portato. Più tardi si potè ricostruire che il 7 febbraio Bonhoeffer aveva lasciato la Prinz-Albert-Strasse. E soltanto nell’estate del 1945, la famiglia riuscì a conoscere l’ultimo itinerario percorso dal prigioniero Bonhoeffer, dal martedì 3 aprile fino al lunedì 9 aprile: Buchenwald – Schönberg – Flossemburg.

Prima del carcere

 Nella edizione 1969 Bompiani, prima delle Lettere ai genitori, alla quali seguono le Lettere a un amico (Eberhard Bethge), il curatore (lo stesso Bethge) pubblica un piccolo saggio dal titolo Dieci anni dopo, scritto da Bonhoffer alla fine del 1942 (quindi nel periodo della sua lotta/testimonianza per la «Chiesa Confessante»), “con l’intenzione di farne un dono natalizio a pochi amici”, dove  si può cogliere la statura di questo giovane uomo ( 36 anni) che, riflettendo sui dieci anni precedenti all’arresto, scrive: “Nella vita di un uomo dieci anni sono un periodo lungo. Poiché il tempo, per la sua irrecuperabilità, è il più prezioso dei beni di cui disponiamo, ogni volta che guardiamo indietro ci turba il pensiero del tempo perduto. Sarebbe perduto quel tempo in cui non avessimo vissuto da uomini, non avessimo accumulato esperienze, non avessimo imparato, fatto qualcosa, gioito e sofferto. Perduto è il tempo non riempito, vuoto. Tali non sono stati certo gli anni passati. Le nostre perdite sono tante, incalcolabili, ma il tempo non lo abbiamo perduto” (p. 55). Più oltre torneremo a quegli anni.

 

Le svolte nelle Lettere

Italo Mancini (1925-1993), filosofo in Urbino, è stato, forse il primo studioso che ha fatto conoscere Bonhoeffer in Italia (scrivendo la puntuale introduzione – Appunti per una lettura critica delle Lettere dal carcere, pp. 44 –  alla edizione Bompiani, 1969. Nella suo saggio (di questo si tratta), Mancini tratteggia, così, in modo mirabile direi, “l’attività complessiva di Bonhoeffer: dapprima il periodo accademico, durante il quale il ventenne Bonhoeffer disse ai teologi: il vostro tema è la Chiesa; quindi, dopo il 1933 – periodo della lotta per la Chiesa Confessante – Bonhoeffer ha detto alla Chiesa: il tuo tema è il mondo; infine, il tempo della resistenza, coinciso con la guerra scatenata dalla furia nazista, durante il quale Bonhoeffer, sulla soglia dei quarant’anni, ha detto al mondo non solo il messaggio della sua maturità: die mündige Welt, che riprende la parola di Kant, che proclamò l’uscita del mondo dalla stato di minorità (lettera del 30.6.44), non solo la crisi radicale della interpretazione metafisica  e religiosa di Dio e del cristianesimo, ma gli ha detto soprattutto come vivere questa sua maturità” (p.7-8).

Piccola antologia dalle Lettere

(30.4.44 – è considerata la ‘lettera della svolta scientifica’) “Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia veramente per noi oggi il cristianesimo o anche chi sia Cristo. E’ passato il tempo dell’interiorità e della coscienza, cioè il tempo della religione in generale. Andiamo incontro a un’epoca completamente non religiosa; gli uomini, così come sono, non possono più essere religiosi”.

(29.5.44) “Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana è giunta al limite (talvolta per pigrizia di pensiero) oppure quando le forze umane vengono meno: si tratta sempre in verità del deus ex machina…Io vorrei parlare di Dio non ai confini, ma al centro, non nella debolezza, ma nella forza, non nella morte e nella colpa, ma nella vita e nella bontà dell’uomo (…) Mi è apparso nuovamente chiaro che non è possibile far comparire Dio come il tappabuchi dei nostri vuoti di conoscenza. Dio non è il tappabuchi: non bisogna riconoscerlo soltanto al momento in cui siamo allo stremo delle risorse, ma nel pieno della vita” (…) “La chiesa non risiede là dove la capacità dell’uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio (…). La nostra chiesa, che in questi anni ha lottato solo per la propria sopravvivenza, quasi fosse il suo proprio fine, è incapace di farsi portatrice della Parola riconciliatrice e redentirice per gli uomini e per il mondo. Ed è per questo che le parole antiche devono svigorirsi e ammutolire e il nostro essere cristiani si riduce a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia.”

(8.6.44 – la famosa lettera del “die mündig gevordere Welt / il mondo diventato adulto”). “Voglio tentare di definire la mia posizione sul piano storico. Ha raggiunto ai giorni nostri una certa compiutezza il movimento iniziatosi verso il XIII secolo (non starò qui ad imbarcarmi in una discussione sulle date), che aveva come obiettivo l’autonomia dell’uomo (intendo per autonomia la scoperta delle leggi, in base alle quali il mondo vive e basta a sé stesso, nella scienza, nella vita sociale e politica, nell’arte, nella morale, nella religione). L’uomo ha imparato a cavarsela da solo in tutte le questioni importanti, senza ricorrere alla «ipotesi di lavoro: Dio». (…) La storiografia cattolica e quella protestante sono concordi nel vedere in questa evoluzione la grande secessione da Dio, da Cristo. (…) Si tenta di convincere il mondo, diventato adulto, che non potrebbe vivere senza il tutore «Dio».  Pur avendo capitolato in tutte le questioni mondane, rimangono sempre le cosiddette «questioni ultime»: la morte, la colpa, cui «Dio» solo può dare risposta e per le quali c’è ancora bisogno di Dio, della chiesa e del parroco. E se un giorno non dovessero più essere ritenute tali,  se dovessero anch’esse trovare una risposta «senza Dio»? (…) Io ritengo gli attacchi dell’apologetica cristiana al mondo diventato adulto, primo: assurdi; secondo: scadenti; terzo: non cristiani. Il problema è: Cristo e il mondo diventato adulto – Christus und die mündig gevordere Welt…” A questo punto Bonhoeffer fa una rapida carellata dello sviluppo della teologia: la teologia liberale e cita Troeltsch; Heim con il tentativo pietistico-metodista; Althaus, con la teologia positivo-moderna luterana; Tillich, che “intraprese un’intepretazione religosa del mondo…voleva capire il mondo meglio di quanto il mondo capisca sé stesso (senza dubbio è necessario capire il mondo meglio di quanto il mondo capisca sé stesso, ma non sotto l’aspetto «religioso», come volevano i socialisti religiosi!). Bart fu il primo a riconoscere l’errore di tutti questi tentativi… Contro la religione egli fece scendere in campo il Dio di Gesù Cristo, «pneuma contro sarx». Questo rimane il suo maggiore merito – 2ª edizione della Lettera ai Romani, nonostante i residui neokantiani! Quanto alla ‘Chiesa Confessante’, essa ha dimenticato in genere il dato barthiano ed è passata dal positivismo alla restaurazione conservatrice; certo ci sono gli elementi dell’autentica profezia e dell’autentico culto, ma entrambi restano chiusi, embrionali, lontani, perché manca la loro interpetazione. Bultman dà l’impressione di avere in qualche modo intuito i limiti di Barth, ma li fraintende, interpretandoli nel senso della teologia liberale: “gli elementi «mitologici» del cristianesimo vengono sottratti e il cristianesimo ridotto alla sua «essenza». La mia opinione è che l’intero contenuto, compresi i concetti mitologici, deve restare – il Nuovo Testamento non è una vestizione mitologica di una verità generale, ma questa mitologia (resurrezione, ecc.) è la cosa stessa! – ma questi concetti vanno ormai interpretati in una maniera che non presupponga la religione come condizione della fede (…) La maggiore età del mondo / il mondo divenuto adulto non offre più, allora, spunto alla polemica e all’apologetica, ma viene realmente compresa meglio di quanto non si comprenda essa stessa, ossia partendo dal Vangelo e da Cristo”.

(8.7.44) “L’estromissione di Dio dal mondo, dalla sfera pubblica della vita umana, ha portato al tentativo di riservargli ancora, se non altro, la sfera del «personale», «intimo», «privato». E siccome ogni uomo, da qualche parte, ha sempre una sfera del privato, lo si ritiene in quel punto più facilmente vulnerabile (…) L’atteggiamento che chiamiamo «clericale», quel fiutare-la-pista-dei-peccati-umani, per poter prendere in castagna l’umanità. (…) Va detto che l’uomo è, sì, peccatore, ma non per questo è volgare. Non sono i peccati della debolezza che importano, ma quelli della forza (…) La Bibbia non conosce la nostra distinzione tra esteriore e interiore. (…) Il «cuore» nel senso biblico non è l’interiorità, ma l’uomo intero, come si trova davanti a Dio”.

(16.7.44) “Dio come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica è eliminato e superato; ma anche come ipotesi di lavoro filosofica e religiosa (Feurbach!). Dov’è,  a questo punto, lo spazio di Dio? si chiedono spiriti pavidi. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi, è il Dio che ci abbandona (Mc. 15,34 – il grido di Gesù sulla croce). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo in ogni momento. Il senso religioso dell’uomo lo indirizza, nel bisogno, alla potenza di Dio nel mondo. Dio è il deus ex machina. La Bibbia indirizza gli uomini all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio che soffre può venire in aiuto.”

(21 luglio 44, il giorno dopo il fallito attentato a Hitler). “Non homo religiosus, ma uomo, semplicemente, è il cristiano, come Gesù era uomo. Non il piatto e banale essere-di-questo-mondo degli illuminati, degli indaffarati, degli indifferenti o dei lascivi, ma il profondo essere-di-questo-mondo, che è pieno di disciplina e in cui la conoscenza della morte e della resurrezione è in ogni momento presente. Lutero è vissuto, io penso, in questa «mondanità»”. E facendo riferimento al suo ‘pensare’ precedente scrive: “Pensavo che avrei potuto imparare a credere, cercando di condurre io stesso qualcosa di simile a una vita di santità. La fine di questo itinerario è stato per me, senza dubbio Nachfolge (Sequela). Oggi vedo chiaramente i pericoli di quel libro, anche se l’atteggiamento nei suoi confronti non è mutato”.

Essendo, questa, scritta il giorno dopo, forse a un lettore ‘comune’ essa appare o una ripetizione di idee e concetti già lette nelle precedenti lettere, oppure incomprensibile. A proposito di questa ‘Lettera’ scrive (e spiega) Bethge nel suo saggio: “Ciò che noi abbiamo tentato di comprendere è stato espresso da Bonhoeffer stesso nella lettera scritta il giorno dopo il fallimento del colpo del 20 luglio, nello stile della confessione. In questo giorno egli pensava che fossero definitivamente morte le speranze sue personali e della nazione e diede uno sguardo alla svolta del 1931, alla sua situazione presente e a tutto ciò che gli stava attorno, soprattutto alla chiesa ufficiale, alle persone che lo condannavano apertamente” (Svolte… p. 54). E, allora, emerge con una luce forte tutto il senso delle svolte nella sua vita e nella sua fede, ricercata, svelata, ripensata in quei “frammenti teologici”, che a piene mani ha disseminato nelle Lettere ad un amico. La cui sintesi sta nel passaggio (pesach) dal teologo, al cristiano, al compagno del nostro tempo. Nello stesso tempo viene riempita di significati veri (non “elaborazioni” di una  teologia accademica, ma pensamento teologico sulla storia e sulla vita vissute) le ‘formule’ quali: “partecipazione alle sofferenze di Cristo nel mondo”, e  “interpetazione non-religiosa dei concetti biblici” (ivi, p. 52).

A questa data, e a questo punto, Dietrich Bonhoeffer sa che in qualunque giorno potrà arrivare la sentenza di morte. Scrive, pertanto, un breve testo (che allega alla lettera), dal titolo: “Stazioni sulla via della Libertà”; riporto soltanto le dominazioni delle stazioni: “Disciplina. Azione. Dolore. Morte.” E, possiamo così, ben comprendere come stiano insieme: «Resistenza e Resa».

 

Bonhoeffer dopo la morte

Eberhard Bethge, nel suo saggio del 1971, scrive: “Nel 1945, la chiesa di Berlino-Brandemburgo, a cui apparteneva Bonhoeffer, prese le distanze dal suo ex-parroco. I discepoli e colleghi nella sua chiesa rimasero senza una esatta conoscenza dei suoi ultimi scritti e delle sue conclusioni teologiche”, e, per lo più tacquero. Questa ritrosia andava anche oltre le problematiche teologiche. “Il 20 luglio 1945, in occasione dell’anniversario del fallito attentato a Hitler, nella sua dichirazione solenne la nuova direzione della chiesa di Berlino-Brandeburgo omise il nome di Bonhoeffer”. Citarono invece i nomi di altri parroci della Renania; in una lettera al padre di Dietrich si giustificarono con motivazioni reticenti e nel contempo assai rivelatrici: da una parte non volevano che un loro confratello “fosse messo sullo stesso piano dei martiri politici”; dall’altra affermavano che “mai avrebbero potuto approvare il complotto del 20 luglio, qualunque fossero state le intenzioni con le quali era stato condotto” (cfr. p. 29). Questa testimonianza ci dà un piccolo, ma tragico, squarcio del sentimento collettivo, ad appena un anno dai tremendi avvenimenti che sconvolsero, dal di dentro e nel profondo, la Germania; poi l’Europa e anche l’occidente. Scrive ancora Bethge: “Dopo due decenni (Bethge scrive per la prima edizione in tedesco del saggio che stiamo consultando, e, quindi, intorno al 1967) molte cose sono cambiate, ma non del tutto. Solo alcuni anni fa la chiesa di un grande Land tedesco ha proibito ad una comunità di dare il nome di Bonhoeffer alla sua nuova chiesa. Ancor prima il vescovo di un’altra chiesa si era rifutato di partecipare all’inaugurazione di una lapide-ricordo nella chiesa del villaggio di Flossenbürg, perché – come lo stesso vescovo ebbe a dichiarare – si trattava di un martire politico e non già cristiano”. Tornerò più sotto su questo aspetto.

La freddezza o l’incomprensione nei confronti del messaggio lasciato dal giovane pastore protestante, andava oltre il perimetro delle chiese, ma non delle religioni. Scrive a tale proposito Bethge: “Più impressionanti sembrano però a me le difficoltà di comprensione che provengono da coloro in favore dei quali sono andati i rischi di Bonhoeffer”. E cita il pensiero e lo scritto di un filosofo ebreo (Emil L. Fackenheim da Montreal): “On the Sel-Exposure of Fait to the Modern Secular World: Philosophical Reflections in Light of jewish Ezperience”; il saggio fu pubblicato al tempo in cui lo stesso Bethge stava riflettendo e scrivendo (1965/67) sulla globale vicenda intellettuale, umana e di tragedia  famigliare (la famiglia Bonhoeffer sacrificò ben quattro congiunti alla lotta contro il nazismo) di Dietrich Bonoheffer. Il filosofo, dunque, così affermava: “ Come testimone perspicace di una posizione cristiana nel mondo secolare e addirittura martire della sua causa, Bonhoeffer ha tuttavia fatto fallimento del tutto…nell’intendere il male mostruoso che c’era nel suo tempo e attorno a lui (…) In un campo di concentramento nel quale c’erano anche dei giudei esposti ad ogni sorta, appena immaginabile, di torture,  Bonhoeffer scrive che i protestanti possono imparare dai cattolici alcune cose che riguardano la sofferenza (cfr lettera 9.3.44). Del martirio degli ebrei non si trova in Resistenza e Resa alcun accenno”.

Mi sembra importante dedicare a questo versante, molto delicato e di solito non trattato nei dibattiti sull’opera di Bonhoeffer, qualche passaggio,  per il rilievo che esso ha in quanto connesso con il tragico evento dell’olocausto. L’argomentazione di Bethge, dopo la lettura di quel testo, è particolarmente dettagliata e merita di essere riportata e valutata per i diversi  lati della sua rilevanza: teologica,  politica e umana. Innanzitutto Bethge osserva che il filosofo “non conosce esattamente il decorso dei fatti; egli ha conosciuto  l’analisi di Bonhoffer sull’uomo moderno attraverso la traduzione isolata ed ecclettica del suo pensiero da parte di alcuni teologi americani, progressiti e ottimisti, come se Bonhoeffer intendesse per ‘uomo moderno’, secondo la formulazione di Fackenheim, un uomo «felice nella sua secolarità e libero da colpe». Una siffatta concezione, di fronte alla quale noi tedeschi, dopo i fatti di Auschiwitz esitiamo a giustificarci, dimentica in quale contesto teologico sia l’espressione di Bonhoeffer sul ‘mondo adulto’ ed in quale situazione essa è stata coniata. Bonhoeffer, mediante la espressione dell’ «uomo adulto» non intende affatto dire che l’uomo diviene sempre migliore: egli intende dire piuttosto che l’uomo è più adulto e quindi più responsabile. Inoltre la concezione dell’uomo adulto è intimamente legata al motivo della partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo. Molto prima che la sua chiesa pubblicasse nel 1945 la dichiarazione di colpa di Stuttgart, egli aveva già steso una confessione di colpa; e già nel 1940 Bonhoeffer scriveva: «La mia chiesa è stata muta quando avrebbe dovuto gridare, perché il sangue degli innocenti gridava al cielo… si è resa colpevole della morte dei più deboli e indifesi tra i fratelli di Gesù Cristo» (Etica, ed. Bompiani, p. 95s.)”. Nella stessa Etica, Bonhoeffer dedica un capitolo alla «assunzione di colpa –p. 202».  Bethge insiste e sottolinea: “Infine c’è da dire che il centro della protesta di Bonhoeffer fu la lotta contro i cosiddetti «paragrafi ariani»(1933) e non già la autoconservazione della chiesa”. E’ bene anche ‘ricordare’ che il giovane professore Bonnhoeffer abbandonò la carriera universitaria per “non sottomettersi, in un modo o nell’altro, ai paragrafi ariani”.  Di grande interesse, infine, è la questione del «martirio». Eberhard Bethge, rettore del collegio pastorale della Renania (mettendo da parte  la spicciola polemica, ‘clericale’, si potrebbe dire, verso la sua chiesa che depenna il nome di Bonhoeffer dalle targhe in memoria dei morti nella  lotta contro il dittatore e il carnefice),  ci offre una interessante riflessione  “sui dubbi che la chiesa nutre sul suo martirio, perché fino adesso non è riuscita ad integrare la forma di questo martirio: come può essa riconoscere l’identificazione alla colpa poco edificante di una cospirazione?”.  “Tuttavia – osserva –  anche l’ebreo contemporaneo ha riservato, in maniera simile, la sua rappresentazione del martirio ad un’immagine passata e irrilevante di purezza sena macchia. Anch’egli non riesce ancora a scorgere la dimensione di una cosciente assunzione di colpa. Sia l’uno che l’altra non dovrebbero osare di farsi una nuova immagine del martirio che comprenda in sé, in modo ambivalente, l’essere della vittima e l’essere del colpevole? Nella vita di Bonhoeffer si  trattò di una siffatta solidarizzazione”. In effetti, nessun dubbio, né umano né teologico, ebbe Dietrich Bonhoeffer sul dovere della sua testimonianza; nella prima lettera del 18 novembre 1943, appena entrato nel carcere di Tegel, dentro la città di Berlino, scrive e confessa all’amico: “All’inizio mi chiedevo, anche, se fosse veramente la causa di Cristo quella per cui ho dato tali preoccupazioni a voi tutti; ma tosto mi levai questo assillo dalla testa come una tentazione e acquistai la certezza che il mio dovere è proprio quello di andare fino in fondo a questo caso limite con tutta la sua problematica; ciò mi rese completamente sereno e fino ad oggi lo sono rimasto”. A quella data, il pensiero e la speranza di poter evitare la condanna a morte albergava ancora in lui.

Le più recenti mistificazioni: «Bonhoeffer sovranista?»

In un breve utilissimo articolo (Confronti, 2/2020) sulla testimonianza di Bonhoeffer,  il teologo valdese Fulvio Ferrario  osserva: “a 75 anni dal suo assassinio, molteplici sono i tentativi da parte delle destre (religiose e non) negli Stati Uniti e in Germania di riappropriarsi del pensiero di Bonhoeffer: dovendo individuare un punto di partenza, sceglierei la pubblicazione di una corposa (si intende: quanto a numero di pagine, circa cinquecento) biografia di Dietrich Bonhoeffer, dovuta a un americano di nome Eric Metaxas: un pessimo libro. L’autore non è uno studioso, bensì un pubblicista dell’estrema destra cristiana, presenta Bonhoeffer come un evangelicale, fondamentalista e reazionario, impegnato in una battaglia all’ultimo sangue contro lo «spirito del tempo»: ieri il nazionalsocialismo, oggi le varie forme di cristianesimo”. E se si trattasse ‘soltanto’ di questo, potremmo limitarci ad aggiugere questa non richiesta fatica all’elenco delle diverse mistificazioni che in questi deccenni si sono materializzate attorno alla vita e  all’opera di Bonhoeffer; ma la vicenda assume altre connotazioni. E il prof. Ferrario, molto opportunamente osserva di trovarsi di fronte ad una sorta di “‘trumpizzazione’ del teologo”; insieme, aggiungo, ad una operazione di pessimo marketing politico. Infatti, scrive Ferrario: “l’ambasciatore americano, Richard Grenell, ha posto una targa nel lager di Flossenbürg e nel suo discorso in occasione della scopertura della targa, l’ambasciatore Grenell ha citato frasi di Bonhoeffer come: «Non nella fuga dei pensieri, solo nell’azione è la libertà». E’ necessario, pertanto, chiederci e riflettere su quali obiettivi ‘politici’ abbiano, queste non richieste manifestazioni di falsa simpatia. Ferrario osserva che: “riletta alla luce della filosofia tweettiforme del presidente americano, finisce per significare: libertà è agire senza pensare e che  opportunamente la Chiesa evangelica in Germania si è tenuta  alla larga dall’operazione trumpista di Flossenbürg”. Pertanto, anche se la critica seria pare abbia considerato il libro di Metaxas per quella misera cosa che è, queste strumentalizzazioni vanno seguite con cura e vigilanza.  Altri segnali, peraltro, vengono dalla Germania stessa, che in questi recenti ultimi anni – marcatamente dopo la riunificazione/annessione della parte orientale – sta entrando in una fase politica, nuova rispetto a quella instauratasi subito dopo la seconda guerra mondiale. Nel suo panorama politico, prima e poi anche nel parlamento si è materailizzata una rilevante forza politica, con larghe compenenti neo-naziste, al suo interno. Ebbene, precisa Ferrario: “Alternative für Deutschland, la formazione sovranista tedesca, ha scoperto una passione bonhoefferiana”. E, quindi,  la biografia di Bonhoeffer viene utilizzata per accarezzare proprio le componenti nazisteggianti di quel partito; come? Sottolinea Ferrario: “mediante la sottolineatura dell’appartenenza di Bonhoeffer a settori conservatori della resistenza antihitleriana”. Il teologo Ferrario introduce a questo punto una osservazione che merita di essere approfondita; scrive: “ Questo elemento restituisce, di per sé, almeno una parte della verità; Bonhoeffer non è stato un “progressista” e le categorie mediante le quali ha pensato la dimensione politica e l’alternativa al nazismo guardano forse più al passato che al futuro”. Forse il professor Ferrario, intende offrire una prima pista alla necessaria riflessione, quando aggiunge: “La tribù dei fan di Bonhoeffer, della quale chi scrive fa parte potrebbe chiedersi autocriticamente se il sequestro da parte della destra religiosa e politica non costituisca una specie di contrappasso nei confronti di una certa inflazione bonhoefferiana, sotto forma di citazioni a raffica in predicazioni e saggi teologici e, anche, di tentativi di arruolare il teologo sotto le proprie bandiere”.

Al ‘contrappasso’ – un interessante genere letterario – andrebbero aggiunti riflessione, studio e indagini specifiche; con maggiore attenzione al contesto degli elementi storici e politici di quella fase storica, in cui scandagliare anche il pensiero e le prassi dei mondi delle chiese. L’autore di questa modesta Memoria non ha ‘bandiere’ e neppure “truppe” alle quali aggiungere briciole di potere di influenza. E nella sua modesta formazione culturale, laica e cristiana (a partire dai suoi lontani trent’anni) ha trovato nelle opere di Dietrich Bonhoeffer linfa e vita. E, pertanto, ha ripreso in mano, in questi giorni della memoria del suo feroce assassinio,  alcuni  testi  della eredità di questo autentico testimone del novecento; e si augura che questo messaggio del professore di teologia: “resta un compito culturale, consistente nell’individuare, nel pensiero di Bonhoeffer, non tanto coperture autorevoli per le proprie tesi, quanto interrogativi in grado di sospingere la riflessione in questi tempi grami”, abbia un seguito. Essendo il decano della Facoltà valdese di teologia di Roma autorevole protagonista della formazione delle intelligenze della sua chiesa, darà a questo compito, senza alcun dubbio un contributo decisivo. Quanto alla mia modesta Memoria, essa muove e vive tutt’ora della stessa “inquietante” (nel senso dell’agostiniano «inquietum est cor nostrum») domanda che ha scosso e tenuto vigile, fino alla ultima sua ora, Dietrich: «Che cosa sia veramente per noi il cristianesimo o, anche, chi sia Cristo oggi». Per questa inquietudine, “un giorno, nella cella di Tegel – scrive Bethge – Bonhoeffer progettò ancora una volta la sua teologia sotto la formula della «intepretazione non-religiosa dei concetti biblici in un mondo divenuto adulto/die mündige Welt » (…) Volendo esprimere ciò che, per amore di Cristo vivente, per lui aveva tanto significato, di fronte alla situazione nuova, egli portò la sua teologia nuovamente all’officina” (ivi, p. 51).  Non è questo, allora, il compito dei ‘teologi’ e delle ‘chiese’?… ‘in questi tempi grami’…!

«Vivere il difficile periodo della nostra storia nazionale»

Concludendo questo inizio di studio e riflessione su un periodo della storia, di questa nostra Europa, vorrei ricorrere ad una delle poesie (La morte di Mosé) di Dietrich Bonhoefer. Ma non prima di aver ‘ricordato’ quanto egli annotò nel suo diario in America nel momento cruciale in cui decise di rientrare in Germania: “è mio dovere vivere il difficile periodo della nostra storia nazionale insieme agli altri cristiani della Germania” (20 giugno 1939). E, sempre nel diario, il 22 giugno scrive: “E’ semplicemente inconcepibile trovarsi qui durante una catastrofe”. Ecco una ‘parola’ che illumina tutto il successivo ‘pensare’: è la nuova situazione esitenziale – ‘catastrofe’- vissuta totaliter, la “officina” dove Bonhoeffer porta la ‘sua teologia’ a ri-crearsi. Senza queste consapevolezze e questa ‘precondizione’ non è possibile compredere nulla del suo lascito e della sua eredità. E, forse, possiamo anche intravedere in questa in-consapevolezza la causa profonda di tanta successiva sordità: della sua chiesa, delle chiese in generale e delle accademie, che – una volta passata la “catastrofe”-  hanno ripreso il ritmo usuale.

Mentre, dunque, il prigioniero Bonhoeffer “pregava ardentemente per pochi secondi nella cella preparatoria”, il cittadino Bonhoeffer, testimone di ‘fede in Dio e fedeltà alla terra’, ascolta la sua coscienza di uomo, resistente che si quieta, e parla al suo Dio con piena consapevolezza: « Tu che punisci i peccati e perdoni volentieri, Dio, questo popolo io l’ho amato. Aver portato la sua vergogna e i suoi vizi, aver scorto la sua salvezza: questo mi basta. Reggimi, prendimi! Il mio bastone s’incurva, preparami la tomba, o fedele Iddio».                                                                      

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