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Teniamo aperto il futuro

Dai comitati politico-amatoriali all’Antropocene. Rassegna di riflessioni durante il lockdown

Antropocene

Durante questa fase della pandemia, sono sorti diversi «comitati politico-amatoriali», promossi da «quelli che non sanno trovare le mascherine, ma che ci spiegano come cambieranno il mondo», Linkiesta (13 maggio 2020) titolava, con lodevole perspicacia, un articolo di Francesco Cundari; poi aggiungeva: «ma perlomeno ci vengano risparmiati gli ambiziosi progetti sul futuro della civiltà occidentale».

Ho il modesto obiettivo di dare una mano a questa aspirazione, attraverso una rassegna: dagli ecologisti radicali, agli eco-teologi, all’anti-capitalismo, alla democrazia dimenticata, alla globalizzazione on/off, all’uomo-pezzo di natura.

Ecologisti radicali ed eco-teologi

All’inizio fecero sentire la loro alta voce, gli ecologisti radicali ( per un approfondimento vedi: M. Campli, Dio non è un tappabuchi. Liturgie sacre e profane in tempo di pandemia, pagina21, 13 aprile 2020 [link]). «La pandemia è un ultimatum naturale»; «due mesi di abbassamento delle quantità di polveri sottili hanno salvato la vita a quattro mila bambini di età inferiore ai cinque anni e a 73 mila adulti di età superiore ai settanta» (copyright di Marshal Burke del dipartimento delle scienze del sistema terrestre di Stanford).

Recentemente, lasciando le loro postazioni davanti ai computer, ne sono scesi in piazza alcuni, in Germania, nel Regno Unito, in Polonia. A Londra, la polizia  ha fermato – assieme ad altre 20 persone – anche Piers Corbyn (fratello del più famoso Jeremy Corbyn, ex leader del Labour britannico) che con un megafono in mano gridava che  la pandemia  di corona virus è collegata al G5, e che la pandemia è «un mucchio di bugie per farvi il lavaggio del cervello e tenervi sotto controllo»; ha anche lasciato ai posteri questa solenne dichiarazione: «le vaccinazioni non sono necessarie» (Daniele Raineri, Il Foglio 19 maggio 2020).

A questa ‘categoria’ si sono affiancati subito  i teologiridefiniti eco-teologi – come Leonardo Boff (Vedi M. Campli, Pandemia e Palingenesi, CeSLAM, 24 aprile 2020 [link]). Prima ha profetizzato a nome della madre Terra: «Ora, arrabbiata, Gaia grida: “Basta! Sono una madre generosa, ma ho dei limiti insormontabili alla mia vita. Devo dare lezioni serie a questi miei figli e figlie ribelli e violenti. Se non hanno imparato a interpretare i segni che ho mandato loro e non mi rispettano e non si prendono cura di me come loro Madre, forse non li voglio più sul mio suolo”». Successivamente ha rincarato la dose. Dopo averci comunicato: «Abbiamo fatto delle scoperte: abbiamo bisogno di un contratto sociale mondiale, perché siamo ancora ostaggi dell’obsoleta sovranità di ciascun Paese. I problemi globali richiedono una soluzione globale, concordata da tutti i paesi»; ed averci commiserato: «Abbiamo visto il disastro nella Comunità Europea…» [ovviamente è un dettaglio insignificante perché il soggetto evocato non esiste più, né giuridicamente e neppure politicamente]; ci informa: «È stata una devastazione specialmente in Italia e in Spagna, e recentemente negli Stati Uniti, dove il sistema sanitario è totalmente privatizzato»; e: «un’altra scoperta è stata l’urgenza di avere un organismo di governo mondiale pluralistico per garantire alla intera comunità vivente (non solo, quindi, alla comunità umana ma alla comunità di tutti gli esseri viventi) il necessario per vivere decentemente». Passando alle “Lezioni” dateci dalla pandemia (questo è un refrain ricorrente da più parti e in svariate famiglie dei fustigatori del nostro decadente modo di vivere), leggo: «Una delle lezioni che abbiamo imparato dalla pandemia è questa: se gli ideali del capitalismo neoliberale – concorrenza, accumulazione privata, individualismo, il primato del mercato sulla vita e minimizzazione della presenza dello Stato – fossero stati completamente seguiti, la maggior parte dell’umanità sarebbe perduta» – e qui ci apprestiamo a cospargerci il capo di cenere – ma poi, su di esso spiove questa «buona notizia», ascoltiamola: «Ciò che ci ha salvato è stata la cooperazione, l’interdipendenza tra tutti  e tutte, la solidarietà e uno Stato sufficientemente attrezzato per offrire la possibilità di trattamento del coronavirus a tutte le persone; nel caso del Brasile, il Sistema Unico della Salute (SUS)». Dunque, una cattiva informazione, in questi giorni di ‘confinamento’ ci avrebbe scaricato addosso, notizie false sul Brasile;  mentre noi siamo vittime sia del disastro della ‘Comunità europea’ sia della ‘Devastazione’ nazionale.

Eppure, mentre scrivo, l’organizzazione Panamericana di Salute, braccio dell’Oms nel Continente, stima che entro agosto il Brasile potrebbe avere fino a 88 mila morti. Lo studio analitico di una università di Washington si spinge oltre, e parla di 125 mila vittime nello stesso mese. Entrambi invitano ad adottare subito un rigido lockdown. Il tutto mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia che l’America Latina è diventata l’epicentro mondiale della pandemia, dove i contagi sono, adesso, quasi 800 mila e la tendenza esponenziale è in crescita.

Dalla eco-teologia apprendiamo  un’altra «buona notizia», questa volta sulla Cina: «I cinesi – sottolinea l’eco-teologo – hanno visto chiaramente questa esigenza nel promuovere “una comunità dal destino condiviso per tutta l’umanità”, un testo incorporato nel rinnovato articolo 35 della Costituzione cinese» (Sic!). E sulla base di queste due esperienze rassicuranti, Boff ammonisce: «Questa volta, o ci salveremo tutti, o ci uniremo al corteo di coloro che vanno nella fossa comune». Si tratta – con questa immagine – di una evocazione profetica (come quelle suggestive e grandiose del profeta Ezechiele, all’autore ben note) o di una realtà di vita e di morte, vicina? Da parte mia ho negli occhi due immagini televisive, ambedue tremende: il triste e doloroso cammino degli autotreni cariche di casse, nella nostra cara terra Bergamasca e le fosse comuni in Brasile, ai margini della “cara Amazzonia”.

Mentre scrivo, apprendo da un servizio di “Repubblica che in Brasile la situazione è sempre più drammatica, Vanderlecia Ortega dos Santos ogni giorno visita gli ammalati casa per casa a Parque das Tribos, un territorio abitato  da 700 famiglie nel nord del Paese. Inoltre, «il contagio sta passando dalle metropoli della costa brasiliana all’entroterra infinito – e più vulnerabile – e sta demolendo il governo populista del “presidente-messia”, che litiga con i sindaci che non approvano la sua linea e con la Corte suprema e con la polizia federale». L’eco-teologo, si avvia alla conclusione, con questi passaggi: «Ci sarà un grande dibattitto di idee su quale futuro vogliamo e su quale tipo di mondo vogliamo abitare (…); la vita sociale e le libertà potrebbero essere costantemente minacciate. Ma ogni potere avrà sempre un contropotere (…); non pochi propongono una glocalizzazione, cioè l’accento viene posto sul ‘locale’ (…). In questo ‘bio-regionalismo’ si potrebbe realizzare un vero sviluppo sostenibile, sfruttando [ops!, forse errore di traduzione?] i beni e servizi offerti localmente. Praticamente tutto avverrà nella regione, la governance sarà partecipata, riducendo le disuguaglianze e rendendo minore la povertà, sempre possibile, nelle società complesse. (…) Altri vedono la possibilità di un eco-socialismo planetario. (…) Avremo, come riafferma la “Carta della Terra” e l’enciclica di Papa Francesco “La cura della Casa Comune”, uno stile di vita “veramente” sostenibile e non solo uno sviluppo sostenibile. (…) La migliore struttura per la umana convivenza con tutti gli altri esseri viventi sulla Madre Terra deve essere guidata dalla logica dell’universo stesso: essa è strutturata, come ci dicono noti cosmologi e fisici quantistici, secondo complesse reti di interrelazioni». E per finire… l’ “eco” si tira in disparte e resta in campo, a suo modo solenne e indiscutibile, il “teologo”… dice e profetizza: «Se posso esprimerlo in termini teologici: è l’immagine e somiglianza della Divinità che emerge come la relazione intima di tre Infiniti, ciascuno singolare (le singolarità non si sommano!), Padre, Figlio e Spirito Santo, che esistono eternamente l’uno per l’altro, con l’altro, nell’altro e attraverso l’altro, costituendo una comunione divina di amore, bontà e bellezza infinita».

Mentre questo fiume in piena scorre, con  le sue molteplici tracimazioni, a suo modo significativo di questi tempi di confinamenti e straniamenti, la mia “percezione” è di stupore davanti alla  metamorfosi avvenuta in un bravo teologo della liberazione, che tanto ha lottato contro  le teologie ufficiali e le sue chiese; ma anche di uno “strano” timore, al pensiero delle conseguenze che essa potrà avere sul pensiero e le esistenze di tanti e tante. Una chiave interpretativa di queste forme di accostarsi e vivere la realtà potrà essere trovata, forse, in studi appropriati.

Kurt Appel, esperto di ‘messianismi secolarizzati’ – docente, peraltro, di teologia cattolica e di filosofia della religione alla Università di Vienna – ha scritto: «La nostra società è critica nei confronti della religione. Nondimeno si celano in essa nuove forme di religiosità sempre più dissennate, che finiscono per assumere i tratti della superstizione. La versione contemporanea della Religione universale potrebbe essere nominata ‘Covid-19’. La situazione attuale presenta, in effetti, affinità con qualcosa di simile a una mina religiosa. Ci si trova al cospetto di un messianismo secolarizzato». (Il Foglio, 21 maggio 2020).

Anti-capitalismo

Riprende la diatriba su liberismo, neo liberismo, capitalismo. Su questo versante, non nuovo, il “diario” dei giorni del confinamento è stato ricco: a volte in modo esplicito (vedi il tema della “Fine della globalizzazione”), altre volte inserito nelle diverse visioni ecologiche integrali, considerato che quel tipo di approccio al sapere ecologico viene  promosso in antitesi all’economia capitalistica e al liberalesimo.

“Il capitalismo mette in dubbio se stesso”, titola La Stampa (11 maggio 2020) un articolo a firma di Gianni Riotta. Cita affermazioni urticanti: «Il capitalismo tradizionale sta morendo, o quanto meno si sta trasformando in qualcosa di simile al comunismo»; «Stiamo attraversando un passaggio d’epoca. Il capitalismo che conosciamo muterà per sempre. Quando chiediamo a governi e politica di aiutarci durante la caduta, diamo loro il potere di creare ogni regola per la risalita». Poi, sornione, osserva: «Queste citazioni sulla sorte delle nostre società, dopo Covid-19, non stupiranno i lettori, avvezzi alla parlantina da talk show e all’intemperanza da social media». Ma poi, torna serio e scrive: «Che si tratti di guru corrucciati, come il filosofo tardo-leninista Slavoj Žižek, impegnato a scrivere un saggio dal titolo, pensate!, “Virus”, di un militante irriducibile del senatore socialista Usa Sanders, appena sconfitto alle primarie, o magari dell’ex leader della sinistra laburista inglese Corbyn?» E quindi svela l’arcano, e in esso ci fa toccare con mano quanto terreno ha scavato la talpa pandemica: «Nulla di tutto ciò, la prima è opera degli analisti del gruppo finanziario australiano Macquarie Wealth (14 mila addetti, patrimonio di 495 miliardi di dollari australiani, 294,91 miliardi di euro); il secondo giudizio apocalittico sul futuro del capitalismo è di Leon Cooperman, amministratore delegato di Omega Advisers ( portfolio di investimenti da 3 miliardi di dollari, 2,73 miliardi di euro)». E conclude: «A perdere fiducia nel capitalismo insomma, davanti alla terza crisi in una sola generazione dopo 11 Settembre 2001 e crollo finanziario 2008, sembrano essere gli stessi capitalisti, i media, l’accademia, i think tank».

Anche qui, trattandosi di approcci che Riotta stesso qualifica come “apocalittici”, spicca l’eco-teologo Boff, al grido: «Il progetto capitalista e neoliberale è stato respinto»… e poi, arruola Joseph Stiglitz; ma troppo sbrigativamente, perché l’economista e Nobel americano, molto più modestamente al suo ultimo libro “Popolo, potere e profitti” mette come sottotitolo “capitalismo progressista”. E alla domanda del giornalista Riccardo Staglianò proprio su quel sottotitolo: «… è un eufemismo per socialdemocrazia?», risponde: «socialismo significa una cosa precisa, ovvero proprietà pubblica dei mezzi di produzione, e neppure Sanders se l’è mai lontanamente sognato. Quello che lui, io e la maggior parte dei democratici intendiamo è offrire gli elementi di base di una vita decente: sanità, istruzione, casa, pensione» (“Il mondo che sarà, il futuro dopo il virus”, Gedi maggio 2020 – anche la pubblicazione è frutto di questi giorni in confinamento).

Sento l’eco di un altro titolo di una decina d’anni fa “Il capitalismo ha i secoli contati” di Giorgio Ruffolo (Einaudi, 2008). L’economista riformista scrive: «Le profezie sulla fine del capitalismo sono state così tante da avergli portato fortuna, ma niente giustifica l’idea che esso rappresenti un assetto definitivo. La storia scorre, implacabile. I suoi tempi sono contati». E venendo al confronto ideale e fattivo con la problematica dell’ecologia e della tecnologia – che molti, troppi ‘scoprono’ ora e la affrontano con un permanente e pervasivo surriscaldamento emotivo, misto a inconsapevolezze conoscitive – scrive: «Le filosofie che contestano la scienza e la tecnica come idoli della nostra servitù ci portano sulla strada opposta a quella segnata dalla legge dell’organizzazione che regola l’evoluzione dell’essere. Ci portano nelle fumosità del misticismo, mentre la scienza e la tecnica, al servizio della conoscenza, non del mercato, sono le vie aperte al nostro sviluppo creativo. Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all’accumulazione capitalistica. Quella sintesi di tecnica e di mercato che ha costituito il segreto del trionfo capitalistico ne rappresenta oggi la prigione. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema, allora, non è quello di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato, ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l’equilibrio ecologico, l’arresto della crescita economica dell’avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo esistenziale della specie umana».

Mi attardo in queste riflessioni, con lunghe citazioni (tipiche di un ‘diario’ dei giorni nei quali si utilizza il tempo anche ripescando dalla biblioteca di casa libri, letti e sottolineati, magari posti in seconda fila a causa dell’arrivo di nuovi; d’altra parte ci ricorda Silvia Ronchey che «la tecnica della citazione in gergo viene chiamata “centone”, parola derivante dal greco kentéo, ‘tessere’, ‘intarsiare a mosaico’), per dare un messaggio da ultrasettantenne: siate riflessivi, cari ragazzi e ragazze che – prima della pandemia – avete giustamente riempito le piazze, allora non costretti dal distanziamento fisico, a difesa della stessa vita; continuate la vostra lotta, ma con crescenti consapevolezze storiche e scientifiche.

E ancora, mentre scrivo, mi offre una buona occasione per una sintesi, che potrei caratterizzare di post-ideologico se il suo autore – Michele Salvati – non se ne avesse a male; oppure dirò semplicemente: di corretta e fondata visione unitaria, sotto il profilo dell’economia e della filosofia politica. È quasi una testimonianza, che fa capire tante cose, anche delle approssimazioni e della saccenteria di tanti dibattiti. Scrive: «Questo saggio è il rifacimento di una relazione tenuta nella sesta edizione del Festival di storia del ‘900 (Forlì, 23-26 ottobre 2019). Il titolo del festival era: “La socialdemocrazia è morta?”; quello della sessione cui ho partecipato: “La Terza Via e i conti con il liberismo”. Il primo titolo, se togliamo il punto interrogativo, si riferisce a una notizia “grossolanamente esagerata”, avrebbe detto Mark Twain. Il secondo è ambiguo e dovrebbe essere riformulato così: “La sinistra di fronte alla fase attuale del capitalismo: globalizzazione e rivoluzione tecnologica”. Si tratta di una fase “liberale di destra” dal punto di vista economico (di qui il termine solo italiano di “liberismo”, equivalente a quello internazionale di “neoliberalismo”) che si contrappone alla fase “liberale di sinistra” dei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale. L’espressione rievocata da Giddens e Blair, “Terza via”, la eliminerei del tutto perché genera solo confusione, come cercherò di mostrare alla fine di questo saggio». Sottolineo questa secca valutazione, che forse farà irritare tanta gente, e che riguarda anche tanta parte della mia personale frequentazione di letture, libri, biblioteche e congressi di partito.

«Gli storici partecipanti al convegno – continua Salvati – hanno illustrato le origini e la grande varietà delle “socialdemocrazie nazionali” a partire dalla fine dell’Ottocento e soprattutto nel periodo del loro grande successo, dopo la Seconda guerra mondiale. Come economista, attento soprattutto alle politiche economico-sociali che esse perseguirono, non posso che constatare la somiglianza dei programmi da loro adottati e metterle tutte in un’unica grande categoria. Di più: sempre sulla base della somiglianza programmatica, metterei nella stessa categoria anche partiti, movimenti e governi provenienti da eredità ideologiche diverse da quella socialista, in particolare da quella liberale e da quella cristiano/cattolica. E definirei questo contenitore ampliato come “liberale di sinistra”. Alle origini, certamente, le socialdemocrazie non erano liberali e la fatica del socialismo a liberarsi del messaggio marxista nella sua versione rivoluzionaria è già evidente nel Bernsteindebatte (se n’è discusso nello stesso Festival di due anni fa: si veda il mio: “A proposito di libertà e eguaglianza”, il Mulino, n. 1/2018, pp. 23-31). Né lo erano i partiti e i movimenti a fondamento religioso, soprattutto quelli cattolici. Ma nel secondo dopoguerra il discrimine anticomunista e la piena accettazione di un’economia di mercato – del capitalismo, dunque – credo giustifichi questa definizione larga. La casa liberale è molto accogliente e non solo tollera, ma stimola, una forte tensione interna tra fondamentalismo di mercato (laissez faire) ed estensione di diritti e benessere al maggior numero possibile di cittadini. Dopo la fine della guerra, esclusa l’Unione Sovietica, nelle due potenze liberali vittoriose, Stati Uniti e Regno Unito, era prevalente il secondo orientamento, che venne rapidamente diffuso anche a quelle sconfitte. Di qui il predominio trentennale, al di qua della cortina di ferro e in Giappone, del “liberalismo di sinistra”».

«Cominciamo dal liberalismo in generale, dalle sue idee di fondo – continua Salvati – libertà individuale e competizione possono dar luogo a un continuo progresso in tutti gli ambiti della vita umana, materiali e morali. Il rispetto delle libertà politiche, economiche e culturali dei singoli individui, quali che siano le loro credenze o condizioni sociali, deve essere garantito dalla legge. Tra le libertà che devono essere assicurate va inclusa la libertà economica, intesa come garanzia della proprietà privata e della libertà d’impresa. Ultima e fondamentale idea: un’ostilità di principio per ogni potere che sovrasti gli altri, incontrollato, sia questo d’origine politica, economica o sociale/culturale. Un’evoluzione storica bisecolare – che ha conosciuto momenti di regressione drammatici – ha condotto agli assetti costituzionali dello Stato di diritto e a una rule of law applicata sia ai privati cittadini, in forma individuale o corporata, sia allo Stato stesso e alle sue istituzioni. E ha condotto a una democrazia rappresentativa a suffragio universale, a partiti che competono senza ostruzioni per il voto dei cittadini, a governi legittimati da regole di maggioranza comunemente accettate» (“Socialdemocrazia e sinistra liberale”, in il Mulino, Febbraio 2020).

Democrazia dimenticata

In questo confronto resta sotto traccia, la questione “democrazia”; al contrario dovrebbe  emergere con nettezza. Cosa che non avviene per svariati motivi, tra i quali anche quello di una sorta di “pudore” delle élite, intellettuali di professione e non. È un sentimento composito: ad alcuni appare un ‘terreno arato’, ad altri ‘ordinario’, ad altri non al di sopra di ‘responsabilità’ e di ‘logoramento’. Su questo versante, invece, si combatte ancora una battaglia ideale e politica intensa. Peraltro, «una democrazia perfetta non è mai esistita in nessun paese di questo mondo. La democrazia è stata e sarà, ovunque e sempre qualcosa di imperfetto, che deve sempre perfezionarsi», così Gaetano Salvemini (La rivoluzione del ricco a cura dello storico Francesco Torchiani, Bollati Boringhieri,  maggio 2020).

Oggi,  la battaglia per la democrazia si combatte nel cuore stesso della Unione Europea: dove, come è noto, alcuni Stati (Ungheria, Polonia) mettono a rischio lo “stato di diritto” e teorizzano la cosiddetta “democrazia illiberale”.  D’altra parte, se c’è una correlazione molto seria da considerare tra coronavirus e modernità, è la tragedia che si sta abbattendo sulle popolazioni sottomesse a regimi autoritari e illiberali. Non dovremmo distrarci. Scrive infatti Sergio Labate: «L’odio delle élite nei confronti della democrazia è noto» (La virtù democratica, un rimedio al populismo, Salerno editrice, 2019). Non dobbiamo neppure ignorare che questa battaglia è posta nel contesto di una corposa riflessione nella quale «il pensiero politico occidentale di ispirazione liberal-democratica – scrive Giancarlo Bosetti – deve misurarsi con alcuni enormi ostacoli, forse insuperabili, e cercare nuove risorse attraverso il confronto con altre tradizioni di pensiero» (La teoria politica guarda ad oriente, in La Repubblica, 29 febbraio 2020) . È il caso di una recente opera del filosofo della politica Sebastiano Maffettone (Politica, idee per un mondo che cambia, Le Monnier, 2019), nella quale egli lavora per «dare la caccia a risorse etiche a sostegno di una riscossa del liberalismo e delle democrazie occidentali in crisi di “universalismo”. […] Una riflessione sviluppata, per la prima volta, estesamente, in un trattato di teoria politica generale, sul pensiero indiano, cinese e musulmano. Si affacciano ipotesi di soccorso di idee dall’Est all’Ovest, da Tagore a Zhao Tinyan, da Dipèsh Chakrabarty a Rajeev Bhargava, da Muhammad Abduh a al-Jabri e tanti altri autori importanti. Nomi vecchi e nuovi che meritano di entrare nella formazione di una cultura liberale e pluralista per il mondo di oggi».

Purtroppo dobbiamo constatare come anche il miglior pensiero cattolico sia silente su questo versante: «Significa qualcosa che la parola “democrazia” non compaia mai nella “Laudato sì”?» (M. Campli e A. Pascale, La casa comune è casa di tutti – il dovere e il rischio del dialogo fino in fondo, Informat edizioni, gennaio 2016). Il silenzio e  la lontananza dei teologi – una volta della liberazione – dalla passione democratica e dalla cura delle libertà sono dentro questa sindrome. Unire responsabilità e partecipazione: ecco la sfida che ci sta di fronte. Già adesso e ancora di più nei prossimi anni – scrive Antonio Preiti – «è evidente che sullo Stato, o meglio sulle regolazioni pubbliche, bisognerà tornare. Bisognerà evitare che il maggiore potere pubblico si trasformi nel maggiore potere dello Stato, in quanto corpus di funzionari e in quanto burocrazia. Piuttosto bisognerebbe impegnarci affinché il maggiore potere pubblico si trasformi in un maggiore potere dei cittadini. Una differenza che nel post-virus è decisiva. La strada maestra è la maggiore responsabilità sociale di tutti, persone, famiglie, imprese. La conseguenza della libertà è la responsabilità. È questo che dobbiamo auspicare, non una burocratizzazione della vita. Forse queste domande rivolte al “capitalismo” nascondono altre inquietudini. Su quelle inquietudini l’economia non ha le risposte e neppure il “capitalismo” le ha. Se il coronavirus ci ha fatto riflettere su quel che conta davvero; su come, seppure distanziati, ci sentiamo comunità; sulla vanità di tanti beni materiali e sul senso della vita, le risposte dobbiamo cercarle altrove: forse dentro di noi, non in un nemico immaginario. Riflettiamoci; diamoci risposte; costruiamo soluzioni inedite, ma non esternalizziamo sempre i problemi, creando un’ideologia che ci assolva da peccati che non abbiamo fatto. Troppo facile, troppo banale, troppo sbagliato per essere vero» (Il nemico immaginario. Il virus e la chiusura della mente anticapitalista, in “Linkiesta”, 22 maggio 2020).

Globalizzazione e deglobalizzazione

«Nel 2016, il magazine di Il Sole 24 Ore ha pubblicato una copertina dal titolo: “Che cosa c’è dopo la globalizzazione”, ricorda Christian Rocca, direttore di Linkiesta – avviando un ottimo confronto sulla globalizzazione chiamata in questi giorni alla sbarra, come il principale responsabile della pandemia, ma quattro anni dopo la questione non è ancora risolta, mentre il virus è diventato una delle forze principali della deglobalizzazione».

L’errore, se così posso dire, sta nell’approccio a questo ‘dato’ della società contemporanea come ad una discussione etico-morale-spirituale (quasi teologico). Rimettendo, dunque, in ordine le cose, Rocca osserva: «Sappiamo che il modello politico, economico e sociale della globalizzazione ha dominato gli ultimi decenni, contribuendo a raddoppiare la ricchezza nel mondo, a far uscire dalla povertà estrema quasi due miliardi di persone e ad ampliare la sfera dei diritti su scala, appunto, globale». Contra factum non valet argumentum, si direbbe; ciò non vuol dire che – come ‘deve’ avvenire per tutti i fenomeni socioeconomici – non si debba analizzare, ricercare, correggere, cancellare ciò che va cancellato, e sostituire. Ma con altri ‘fatti’, altre regole, altra visione. Non è ricacciando nell’oblio le tragedie del nazionalismo europeo/occidentale che si procede in qualche nuova strada umanizzante. Perciò, è utilissimo prendere di petto il problema: «Ma da un lustro, ormai, ci domandiamo se il sistema della ‘globalizzazione neoliberista’ per usare la definizione cara ai suoi detrattori [salvo la precisazione del prof. Salvati, sopra riportata: «il termine solo italiano di “liberismo”, equivalente a quello internazionale di “neoliberalismo”], possa reggere ancora o sia sotto attacco proprio perché arrivato al capolinea».

Partecipando al “dibattito di Linkiesta” (25 maggio 2020), Massimo Adinolfi scrive: «La globalizzazione? Chiedo un attimo di pazienza, please. Per dire anzitutto che il pensiero liberale, che le ha messo il vento nelle vele, pensa in genere che l’uomo sia buono per natura. Potete cambiare l’aggettivo come più vi aggrada, aggiornarlo secondo nuove ricerche e prospettive, ma al fondo, se siete liberali, condividete un certo ottimismo antropologico: se lo lasciate fare, l’uomo non si comporta malaccio (…) Ma modernità ha sempre significato ricerca delle vie e dei modi per sentire quella mano meno stretta e più aperta. E non v’è motivo, io credo, per rinunciare a questa ricerca e ai suoi frutti».

Tornando al ‘luogo’ da cui pensiamo e scrutiamo l’orizzonte – la pandemia – non si può non convenire con Anna Zafesova: «La lotta alla malattia è il primo evento interamente mondiale della nostra storia, che stiamo vivendo e combattendo insieme: copiamo lockdown e protocolli già utilizzati altrove e facciamo tesoro degli errori degli altri. Alla fine avremo una cura o un vaccino a tempo di record grazie agli sforzi collettivi della comunità internazionale. (…) È possibile e probabile che la globalizzazione, come la conosciamo ora, subisca mutamenti e rallentamenti nel campo produttivo: del resto, già prima della pandemia si erano avuti cicli altalenanti nella delocalizzazione della produzione, ad esempio, dettati dalle fluttuazioni del corso del petrolio e quindi dei trasporti. (…) Ma la globalizzazione non è sinonimo né di delocalizzazione della produzione, né dei viaggi in giro per il mondo, anche se queste sono due sue componenti essenziali. La globalizzazione è una narrazione condivisa, per cui da Madagascar a Vancouver abbiamo le stesse ambizioni, gli stessi sogni, le stesse paure e gli stessi eroi, gli stessi simboli e le stesse parole d’ordine, che siano le t-shirt di Messi o l’ecologismo di Greta. È informazione trasmessa e vissuta in tempo reale, dove alla fine lo stupore per la diversità di chi non è come noi viene sostituito dall’empatia e dalla condivisione. Non è una conquista indistruttibile – abbiamo visto troppo spesso utopie venire intossicate da nazionalismi e campanilismi fratricidi – ma la visione globale del mondo ormai è entrata nei geni di milioni di persone».

La mia generazione è stata raggiunta da questo scenario tecnologico, economico, sociale e culturale, in età adulta; quella dei nostri figli e figlie l’ha assunto con spontaneità (senza straniamento) sui banchi di scuola; quella dei nostri nipoti – generazione digitale – ne saranno protagonisti pienamente: cruciale era, è, sarà che lo siano con intelligenza e umanità. È a  costruire questa ‘sostanza’ vitale che il tempo di ora deve essere destinato: resistendo alle e contrastando le radicalizzazioni di ogni sorta, tipologia e natura.

Con un approccio di equilibrio scrive in questi stessi giorni Yascha Mounk: «Le ultime settimane ci hanno esposti a un coro particolarmente chiassoso di voci cronocentriche, che sostengono che siamo alle soglie di un cambiamento senza precedenti». (“Anche dopo il virus il nostro mondo continuerà a girare”, in La Repubblica, 26 maggio 2020). Mounk sull’approccio detto cronocentrico ci ricorda che esso non è nuovo e neppure tipico di fasi pandemiche: «nel 1974 il sociologo Jib Fowles coniò il termine “cronocentrismo”, vale a dire “la convinzione che la propria epoca sia preminente, che gli altri periodi impallidiscano al confronto”». E aggiunge: «Il Covid-19 sicuramente provocherà alcuni cambiamenti importanti. Ma le previsioni sensazionalistiche che oggi dominano le pagine degli editoriali di tutto il mondo probabilmente sono fortemente inaccurate». Volendo puntualizzare, tra origine e processi, egli ricorda che: «sono tre i fattori che hanno determinato la nascita ed espansione della globalizzazione economica come la conosciamo noi oggi: la rivoluzione Ict (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ndr), l’abbattimento dei costi logistici e di trasporto e le scelte politiche favorevoli alla liberalizzazione del commercio internazionale». Il processo è stato anche caotico; la narrazione anche sbagliata e persino autolesionista, ma ha seguito una sua razionalità che non deve sfuggirci. Ed ora, «la distribuzione di tecnologie, infrastrutture e capitale umano tra le diverse economie mondiali è il frutto di circa 50 anni di investimenti che non saranno cancellati dall’oggi al domani». La pandemia accelererà, certamente, alcuni cambiamenti già in atto; e il processo troverà alcune correzioni decisive su due versanti; uno è particolarmente evidente, ed è «la sfida dell’approvvigionamento dei beni essenziali; con una  diversificazione dei fornitori e stoccaggio di equipaggiamenti, come quelli medici: sono le strade percorribili al momento, nonostante la prima presenti costi maggiori e tempistiche incerte». L’altra – meno percepibile al grande pubblico, è la connessione/partecipazione alle catene, strategiche, del valore. «Sarà la Cina capace di sviluppare industrie ad alto valore aggiunto che possano competere con quelle occidentali? Persino un colosso come Huawei non può fare a meno dei semiconduttori taiwanesi e americani». Conclude queste considerazioni Daniele Verdini con queste parole: «la partita della globalizzazione, quindi, è ancora tutta da decidersi» ( La globalizzazione non ha un interruttore on/off, Linkiesta, 28 maggio 2020).

«L’impatto della pandemia evidenzia che il maggior pericolo per la sicurezza collettiva viene dalla debolezza degli Stati nazionali. Il Covid 19  ha, infatti, esteso ad Europa e Nord America la ‘fragilità interna’ come elemento di “maggior rischio globale”,  identificato dalla Banca  Mondiale a fine febbraio. In quel documento si legge che “il più alto numero di conflitti degli ultimi 30 anni e il maggiore numero di profughi mai registrato” si sommano  a ”delle diseguaglianze, opportunità carenti, discriminazioni crescenti, percezione di ingiustizia, cambiamenti climatici, migrazioni ed estremismi violenti” con il risultato di “generare  ondate di vulnerabilità, shock e crisi” che si producono dentro gli Stati, ne superano i confini e causano instabilità regionali. (…) Una piattaforma comune concordata fra i paesi industrializzati per ricostruire forza economica e stabilità sociale delle nazioni può essere la sfida capace di indicare il percorso per ricominciare a crescere dopo l’attacco della pandemia» (così Maurizio Molinari, Il pericolo della fragilità degli Stati, 17 maggio 2020).

 

 

Cibo insicuro

Agricoltura, cibo, globalizzazione. Un trinomio, cruciale… a suo modo: nel senso che in questo campo  –  molto intrecciato con la salute – l’attesa è altissima e spesso l’approccio rasenta il tono delle fedi, con il seguito delle  genuflessioni secolari. Leggiamo l’articolo  “Cosa è bio. La chiave non è la lunghezza della filiera, ma la sicurezza” (G. Corbellini e A. Mingardi, su “HuffPost, 29 maggio 2020). L’approccio è quello giusto, con basi scientifiche ed equilibrio comunicativo, per ristabilire anche il corretto significato alle parole e per ben “distinguere fra marketing e politica”. Allora: promuovere «filiere brevi, astrattamente, è coerente con la necessità di rinsaldare la sicurezza alimentare, in un mondo dove viaggi e spostamenti si riducono, per evitare che assieme con noi viaggino anche gli agenti patogeni (lo facevano già da prima, ma l’abbiamo scoperto di recente!)». Ma, in aggiunta alle utili precauzioni, le conoscenze sono sempre il primo cibo delle menti. E, pertanto, sottolineare che «proprio la pandemia in corso dimostra che il problema non è la lunghezza della filiera, ma la sicurezza alimentare locale», è non solo opportuno, è anche più esatto.  E siccome  «il virus non ha viaggiato nel cibo, ma nelle persone, continuerà a convenire economicamente e non sarà pericoloso e potrebbe essere anche sensibilmente più efficiente, quando c’è domanda di agnello, importare carne ovina dalla Nuova Zelanda, pur trattandosi di una filiera lunghissima; mentre fino a quando esisteranno in Oriente insane commistioni tra alimenti agricoli, medicinali e animali selvatici, non saremo sicuri».

Personalmente, voglio molto bene alla Unione Europea – e in più parti si trovano testimonianze che questa affermazione non è banale e neppure di maniera. Quando la Unione si e ci dà questi obiettivi: entro  il 2030, «ridurre l’uso dei pesticidi del 50% e dei fertilizzanti almeno del 24%” e “aumentare al 25% la superficie agricola Ue coltivata secondo i metodi dell’agricoltura biologica dall’8% che è oggi», è utile e corretto aggiungere ulteriori, ben note, altre consapevolezze. Queste, ad esempio: «a) nell’agricoltura europea, già il filone biologico (biologico, biodinamico, macrobiotica, ecc.) è fortemente sussidiato malgrado sia meno produttivo e meno sicuro dell’agricoltura tradizionale”; b) fare biologico (come se ci fosse un’agricoltura non biologica!) richiede maggiori estensioni di terreno e più consumo di suolo: se il 25% dei terreni verrà coltivato in modo “bio”, non renderà quanto sarebbe possibile con metodi “tradizionali”; c) Il bio dovrebbe essere l’indicazione di una modalità produttiva, ma diventa, nel discorso comune, una sorta di dichiarazione di genuinità». E questa comunicazione non è mai corretta!

Infine, mi sia consentito – essendo nato, cresciuto e diventato adulto in una famiglia contadina del Sud Italia – non condividere «la diffusa nostalgia per l’agricoltura di una volta e non importa se quell’agricoltura, una agricoltura per così dire priva dei supporti chimici e industriali tipici dell’epoca contemporanea, faceva vivere male i contadini e sfamava male una popolazione europea che era meno di un quinto dell’attuale». E ricordare e sottolineare che «se la nostalgia avesse qualcosa in comune con la storia, o perlomeno con il ricordo informato del passato, dovrebbe suggerirci che nel mondo, prima dei pesticidi, tutto mancava tranne episodi epidemici e pandemici gravi».

Già in altre circostanze mi sono intrattenuto (meglio: rattristato) con «l’idea che il Coronavirus sia una sorta di vendetta della natura» ed è, sempre, opportuno ricordare anche che «da che mondo è mondo, le epidemie sono una vendetta degli dei. Nell’Iliade, Apollo scatena una pestilenza sull’accampamento degli achei perché Agamennone si è rifiutato di restituire Criseide al padre». Oggi, invece, «in un mondo fortemente secolarizzato la Terra è diventata una sorta di divinità laica; esiste un libero mercato delle coperte di Linus e ognuno si compri pure quella che preferisce. Noi – scrivono Corbellini e Mingardi – ci limitiamo a ricordare che fra le ipotesi più accreditate sull’origine di questa pandemia ci sono le compravendite di animali selvatici in Cina, per usi legati alla medicina tradizionale cinese. Il massimo del bio».

Uomo-pezzo di natura

Conciliare Kant e Darwin. E dalla storia sociale e politica ad un approfondimento in corso tra gli esperti del tempo geologico. In una «visuale pragmatistica, che vorrebbe conciliare Kant con Darwin» – direbbe Jürgen Habermas. I filosofi della politica ne hanno cominciato a parlare da tempo, con il loro specifico linguaggio, ovviamente. In una conferenza, per il giubileo di Adorno, Habermas scrive: «Qui noi continuiamo ad adoperarci per conciliare Darwin e Kant, e per comprendere la situazione apparentemente paradossale che Adorno così descrive: “Che la ragione sia altro dalla natura e tuttavia un suo momento è la sua preistoria divenuta sua determinazione immanente”. Questa formulazione tiene conto dell’istituzione che anche i soggetti guidati dalla ragione e agenti pertanto liberamente, non sono affatto sottratti agli eventi naturali. Non possono sganciarsi, trasferendosi in un originario luogo intellegibile, dalla loro provenienza naturale» (Frankfurt Adorno Konferenz 2003).

Olocene o Antropocene? Il passaggio ad una nuova era e il suo battesimo, con l’attribuzione del nome Antropocene, è stato officiato da due ‘padrini’ d’eccezione, il Nobel Paul Crutzene e l’ecologo Eugene Stoermer. Si racconta che Crutzene nel corso di una conferenza avesse quasi sbottato: «Siamo entrati nell’Antropocene!». «Esclamazione in certo senso irritata nei confronti dei colleghi che si ostinavano a tenere il nostro tempo nell’Olocene», chiosa Mauro Ceruti.  Ma, forse, è meglio procedere con ordine, ripercorrendo una interessante riflessione di Ceruti (Non è detto che vada male, Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2020), profondo conoscitore del “tempo della complessità”. Scrive: «La nascita del nuovo millennio ha raccolto su di sé tanti investimenti simbolici, apocalittici, fantascientifici…investimenti che l’hanno preceduta e hanno accompagnato la sua attesa. Un virus millenial e globalizzato li sta rigenerando. Forse per questa sua capacità di essere attrattore simbolico, lo stesso anno 2000 è stato anche l’anno in cui nel modo più deciso e formale è stato proposto il nome Antropocene, per battezzare la nuova era in cui si troverebbe la storia della Terra».

Antropocene: esiste un futuro per la terra dell’uomo?”, è il titolo di un saggio di Erle G. Ellis, che scrive: «L’idea di identificare una nuova unità di tempo in cui l’uomo – a differenza di quanto accaduto per le precedenti – è diventato una “incredibile forza della natura” non viene condivisa solo dagli accademici. Il futuro dell’Antropocene rimane comunque incerto, dato che il dibattito scientifico sta tutt’ora vagliando varie proposte per definire una “età dell’Uomo”, inclusa quella di respingerla». Discernere la natura del tempo che ci passa davanti, o nel quale noi passiamo, attraversandolo, è cruciale. La problematicità sta certamente nell’attraversamento, ma il dramma (sic!) sta nella prioritaria riflessione e opzione circa la “qualità” del tempo che ci attraversa o che noi attraversiamo. Una interrogazione che mi sono posto da un altro angolo della percezione del tempo (vedi M. Campli, Cortocircuito: il-tempo-di-ora, The Diagonales, 28 aprile 2020, [link]. Qui torno a farlo, ascoltando la ricerca specialistica delle scienze geologiche.

Olocene o Antropocene? «Il nuovo millennio si apre con all’ordine del giorno, un’impellente sfida: riscrivere il racconto della storia della Terra, aprendo un nuovo capitolo, destinato non solo a delineare nuove prospettive per pensare il futuro, ma anche a imporre una riscrittura dei capitoli precedenti. La storia dell’uomo – precisa Ceruti – è da sempre la storia della scrittura di questo racconto». All’inizio troviamo i miti che narrano e/o interpretano le origini e, nello stesso tempo,  i rapporti degli uomini con i mondi sensibili e sovra sensibili. Molteplici sono queste ‘narrazioni’, a seconda delle diverse civiltà e culture. Per questa parte di mondo, la greca e l’ebraica: Gaia, Prometeo, il Dio creatore della Bibbia, il Giardino dell’Eden. Segue la riscrittura fatta nell’età moderna, con due rivoluzioni: una scaturita dalla ‘esplorazione dello spazio profondo’, e il passaggio così bene ricostruito da Alexandre Koyré, dal ‘mondo chiuso all’universo infinito’, l’altra scaturita dalla ‘esplorazione del tempo profondo’, le cui immense dimensioni si rivelarono indispensabili affinché Charles Darwin potesse appunto affermare la sua nuova idea della vita, che chiamò evoluzione. Le due rivoluzioni imposero una inedita dimensione quantitativa del tempo. «Dal tempo ‘chiuso’ nei 6.000 anni (che fino ad allora anche la comunità scientifica aveva recepito dalla narrazioni tradizionali) fu riscritta la storia dell’Universo, della Terra e della specie Umana, in una cronologia dilatata fino ai miliardi di anni». Questo percorso, noi siamo abituati a maneggiarlo come una conquista della razionalità e del metodo scientifico, e lo è; ma nel contempo è  anche una sorta di diminutio dell’uomo nello scenario complessivo: «il posto dell’uomo nella natura si trovò ridimensionato e decentrato, fisicamente e simbolicamente».  I passaggi sono stati i seguenti: nel mito, l’uomo era al centro ma le forze della natura erano di natura divina; con la scienza moderna le forze della ‘natura’ sono di natura fisica, chimica, biologica ecc.; l’uomo perde la sua centralità e lo studio della natura procede separatamente dallo studio della storia dell’uomo.  Scrive Ceruti: «Nella prospettiva dell’Antropocene, l’uomo ritorna, in un certo senso, al centro e in una condizione strettamente intrecciata alla natura. È una nuova rivoluzione».

La discussione, l’incertezza e la resistenza a questa “rivoluzione” – o al contrario la sua accettazione entusiasta, quasi religiosa di essa – dipende da una serie intrecciata di questioni: la diversità delle ‘sostanze’ delle componenti di questa “entità composita” (oggetto dello studio e della ricerca scientifica) denominata: “antroposfera” e/o “biosfera antropogenica”. Quali “metodologie” dovranno essere usate e con quali validazioni di “certezza scientifica”? Ceruti osserva: «A causa di questo groviglio, natura e società sono diventati una cosa sola. Con l’Antropocene, la distinzione tra storia umana e storia naturale, insomma, è finita per sempre». Ma la complessità della configurazione planetaria/umanitaria non ne viene semplificata, bensì al contrario moltiplicata. Un solo esempio: «Erle G. Ellis può affermare che non è Homo sapiens in senso generico che sta trasformando la Terra, ma che persone e società diverse la trasformano, la potranno trasformare, in modi diversi». Per dare meglio l’idea delle conseguenze, proverò a elencare schematicamente alcuni interrogativi conseguenti (sempre prendendole dalla riflessione del Ceruti): quanti “Antropocene” esistono? Chi è responsabile del cambiamento ambientale antropogenico? Quanti e quali modelli/strategie di governance saranno necessari per  governare questa complessità? Come saranno articolate le ‘Libertà’ individuali e personali? Si potrebbe continuare quasi all’infinito. «Insomma – scrive Ceruti – l’Antropocene non è solo una “ipotesi scientifica”». Ma, come osserva Ellis, è un «periodo di tempo riflessivo, sul significato e sulle implicazioni di una nuova era dell’uomo, un momento in cui l’uomo reinventa il significato di essere umano».

Mi sembra utile, a questo punto, dare la parola direttamente all’autore, Erle G. Ellis (Antropocene: esiste un futuro per la terra dell’uomo?, Giunti, Firenze, pagg. 224, gennaio 2020): «l’Antropocene ci dice che gli uomini, nel loro complesso sono una forza della natura. La sua storia è appena iniziata e sulla strada davanti a noi esistono diversi tipi di Antropocene, alcuni migliori, altri peggiori. C’è ancora tempo per plasmare un futuro in cui la natura umana e quella non umana prosperino insieme per millenni».

Molteplici domande si possono porre a questa frase (…conclusiva?). Esemplifico: “nel loro complesso”? “Una forza”? “della natura”? “Un futuro”? Stante la impostazione del saggio e la sua argomentazione, nessuno di questi termini può essere detto e usato al “singolare”, bensì risulta necessario, per  sua interna coerenza, la dimensione al “plurale”, per ciascuno di essi. Sarebbe, questa, la inevitabile configurazione dei primi risultati del tempo riflessivo, che  rinvia ad un approfondimento di problemi scientifici e della validazione scientifica della ricerca, a cui sopra facevo riferimento. Che la “impronta umana” sul pianeta sia andata via via aumentando è evidente. La indiscussa (…ci sono ancora ambienti, anche scientifici, residuali che la negano) responsabilità nella conduzione del pianeta terra e del suo futuro ora è acquisita. Ma, appunto, di “responsabilità” trattasi, e quindi, incorpora anche quella cruciale attitudine al “pensiero” critico, razionale, scientifico, laico che non perda un minuto a baloccarsi con il “come si vadia in cielo”, ma si dedichi totalmente al «come vadia il cielo» (Galileo Galilei). Quindi: distinzione, autonomia e indipendenza tra approcci, tra professioni, tra ermeneutiche, tra linguaggi.

Enrico Bucci, ha recentemente attirato l’attenzione sulla pratica diffusa del “gioco delle false correlazioni”. Ha scritto: «Dobbiamo imparare a dubitare e sospettare fortemente di chiunque ci proponga correlazioni, in assenza di un meccanismo chiaro e provato che spieghi perché una cosa dovrebbe causare l’altra». Con particolare intensità, queste tracimazioni appaiono in questo tempo, anche con le migliori intenzioni. Quella, ad esempio di «dare voce a un sentire collettivo diffuso fin dall’inizio della pandemia del coronavirus: l’impulso a mettersi dalla parte degli animali, ad ascoltare la natura; nel senso di una nemesi, di una legittima reazione al peccato di hybris che l’umanità ha commesso nei suoi confronti» (Silvia Ronchey, L’autore misterioso e il suo mosaico, Repubblica-Robinson, 30 maggio 2020, p.3). Una sequenza di termini ed emozioni che può offuscare la mente. “Natura”: anche i virus sono natura; “umanità”: anche umanità è natura; “animali”: anche gli animali sono natura. Nella naturale competizione per la vita (evoluzione), chi compie contro chi, il “peccato” di hybris? (assai istruttiva, tra l’altro, la scelta di questo termine, che rinvia all’altro di colpa!).

Forse è il caso di chiedere ospitalità ad uno scienziato, Guido Silvestri; scrive, in Uomini e virus. Storia delle grandi battaglie del nostro sistema immunitario (Mondadori, 2019; Le Scienze, La Repubblica, 2020): «Questo libro parla di uomini, di virus, e di scelte difficili. (…) Quando pensiamo alle infezioni e all’umanità, spesso è difficile liberarsi di una chiave di lettura a senso unico e un po’ manichea, infarcita di vincitori e vinti, buoni e cattivi. (…) l’idea centrale è che la scelta fondamentale nell’interazione del nostro sistema immunitario si concentri attorno a due possibilità: combattere o convivere. (…) Virus e ospite [attenzione: in questo caso uomini e animali!] puntano a raggiungere il medesimo obiettivo: coabitare, coesistere, a far proliferare il proprio patrimonio genetico in quante più copie possibile» (p. 7-8). Più oltre, nel paragrafo intitolato L’ambivalenza della natura, continua: «Noi abbiamo bisogno dei virus? Oppure ne faremmo volentieri a meno? Se siamo a letto con l’influenza la risposta è scontata. Il cervello umano ha però l’obbligo di andare oltre l’ovvio, e di mettere in dubbio conclusioni che sembrano facili. (…) Il grande successo evolutivo dei virus sembra suggerire  che nella storia della vita terrestre devono aver svolto numerose funzioni importanti, e il bello è che la scienza le sta scoprendo solo ora. Alcuni virus, per esempio, sono in grado di agevolare il trasporto di frammenti del nostro DNA da una parte all’altra del genoma, favorendo l’adattamento evolutivo. Ma non basta. Oggi sappiamo che una parte notevole del patrimonio genetico umano è costituito da migliaia di copie di elementi di origine virale che nel tempo sono diventati inquilini stabili delle nostre cellule». L’autore è medico, professore ordinario e capo dipartimento della Emory University di Atlanta (USA); dal 2001 dirige un laboratorio di ricerca specializzato nello studio dell’infezione da HIV, di cui è considerato uno dei massimi esperti al mondo.

Se “Antropocene” vuole ricordarci questa originaria e radicata compromissione di uomo e natura (e volta a volta la storia ci ricorda che le culture susseguitesi hanno teso e preteso che l’uno o l’altra avesse il diritto esclusivo alla “maiuscola”) è il benvenuto. Naturalmente apprezzo la positività della affermazione, dell’autore di Antropocene: «C’è ancora tempo per plasmare  un futuro», ma – chiedo – di chi, di cosa? Erle Ellis, infatti, ci dice che  ogni Antropocene ci darà la sua ‘natura umana e non umana’. Conclude, opportunamente, Mauro Ceruti: «Già tenere aperto questo futuro è di per sé un atto prometeico». Ben detto, è un auspicio che si collega al messaggio iniziale della sua riflessione/recensione, e con esso concludo: «Non è detto che vada male».

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